No, non
sono una mamma coraggio. Ho solo un bimbo speciale con bisognI speciali: e
quale madre non diventa combattiva, non segue l’istinto e non protegge il
proprio cucciolo se lo vede indifeso? Daniele è un dono, non solo per me. Io dico
che è “figlio di tutti”, anche di questa società che in fondo ha bisogno di lui
per sapere di più, per trovare cure e soluzioni: avere una statistica delle
malattie rare in Italia, lo so, permetterebbe di poter cogliere i segnali e i
sintomi e intervenire in maniera più mirata e precoce. Daniele è un’opportunità,
un tesoro per tutti: e oggi in tanti, con amore, mi aiutano a prendermene cura.
A cominciare da suo padre, Davide. Ero fidanzata con lui da dieci anni quando
mi sono accorta di aspettare il bambino: avevo trent’anni, l’età giusta. Cresciuta
senza la mamma che avevo perduto a soli undici anni desideravo a mia volta essere
madre, occuparmi di un figlio con quella tenerezza che nutrivo dentro di me,
anche grazie alla dolcezza del mio compagno. Le analisi di routine erano buone,
la gravidanza scorreva serenamente, traghettando me e la mia pancettina verso
una primavera tiepida. Quella attesa era una traversata, un lento lasciarsi
cullare. Avevamo scelto di non effettuare l’amniocentesi. Forse, chissà, anche
per paura di dover decidere qualcosa. Non avevo pensieri cupi, questo no: ma
sotto sotto, nelle profondità di quelle acque su cui immaginavo di essere
portata, avevo la sensazione che qualcosa non andasse. Tuttavia, non avevamo
fatto nulla. Oggi mi chiedo con sgomento chissà cosa avrei scelto? Chissà se,
per paura, avrei rinunciato a lui, a questo dono del cielo…
La pancia
cresceva poco, l’ansia a tratti mi prendeva e immaginavo il mio bambino
piccolo, come un ranocchietto delle favole, ma tutto procedeva.
A quaranta
settimane i medici sceglievano di indurre il parto: il bimbo sembrava sofferente,
serviva un cesarie d’urgenza. Appena nato, Daniele, non piangeva. Avevo visto
il piccolo per pochi secondi, poi il bambino mi era stato portato via. La vicinanza
che per ogni mamma e per il suo cucciolo è indispensabile, ci veniva negata. “Lo
portiamo in incubatrice… stia tranquilla, poi le diciamo”. Voci confuse nessuno
che mi spiegava cose stesse accadendo, perché Daniele non era con me ma in
patologia neonatale. Era aprile. A Roma l’aria profumava di alberi in sboccio,
di glicine trionfante: e io piangevo. Davide aveva scattato una foto di quel
bambino che non mi avevano lasciato accarezzare: biondo con tanti capelli
soffici come un pulcino. Un piumino dorato, un putto delicato. Sì, davvero
Daniele per me somigliava a un angioletto. Eppure, il bambino appena nato che
avevo scorto di sfuggire, quasi, aveva un viso singolare, con quell’orecchio un
po’ elfico, gli occhi a mandorla, l’alluce del suo piede era affusolato.
Al terzo
giorno il pediatra ammetteva che il piccolo stava bene ma serviva una
consulenza genetica. Il mondo mi crollava addosso. Nonostante la vicinanza di
Davide, ero disperata. Di colpo il piccolo mi sembrava un mostriciattolo, una
disgrazia. Mi vergognavo, sentivo di aver fallito. Nello stesso tempo, però,
avvertivo una leonessa in me che ruggiva, pronta a difendere il suo cucciolo. Lo
proteggerò, mi dicevo, farò di tutto perché lui stia bene.
Da quel
giorno, insieme a suo padre, abbiamo iniziato la nostra ricerca. Su quel
bambino minuscolo, che pareva la creatura di un misterioso mondo di fiabe,
hanno fatto esami, ricerche, diagnosi. A luglio sapevamo già tutto. Daniele è
affetto da una patologia rarissima data dall’inversione e dalla duplicazione
del cromosoma 10. Pochissimi casi al mondo, ognuno diverso dall’altro. Di questo
tipo di malattia si sa poco. Ma non eravamo e non siamo soli. Da diversi mesi
siamo stati accolti dalla struttura dell’Anffas di Ostia diretta dal dottor Francesco
Cesarino dove ci hanno accudito e spronato a tenere duro. Chi è affetto da
questa rarissima patologia genetica ha un ritardo psicomotorio. Daniele non
parla, non cammina. Gattona. E ogni tappa è una conquista. Noi abbiamo imparato
a gioirne, vivendo giorno per giorno, senza mollare mai perché lui ha bisogno
di essere stimolato ed esortato, di avere domande.
Ancora non
mi chiama mamma ma un domani, lo so, dirà ‘mamma’ e sentirò la sua voce. Il primo
sorriso me lo ha regalato quando aveva dieci mesi. E quando ha allungato le
braccia, tenendole verso di me, cercando proprio me, la sua mamma, aveva un
anno e mezzo. Mi sono commossa, mi sono sentita riconosciuta, viva. So che per
ogni madre, per ogni padre di un bambino speciale ci sono momento in cui lo
sconforto si alterna all’euforia della vittoria insperata, dove il dolore si
intreccia alla tenerezza: ma ciò che conta è non sentirsi soli e non isolarsi. Noi
abbiamo scelto di mandare Daniele al nido nonostante le due difficoltà: e se
all’inizio gli altri bambini erano per lui sconosciuti da temere, oggi sono
presenze che lo sollecitano. Piano piano lui impara, osserva, imita, dopo le
tre mattinate al centro per le due ore di riabilitazione con la logopedista e
gli esercizi di psicomotricità, lo porto in quel nido. Daniele non sa mangiare
né bere da solo, non è coordinato nel movimento ma lì, con le educatrici e gli
altri bimbi, sono sicura che si diverte, che apprende, che fa tesori di ciò che
vede. Al termine del sonnellino gioca un po’ insieme altri amichetti e poi alle
quattro e mezza io lo vado a prendere e torniamo a casa. La giornata va
scandita, ritmata da gesti ripetuti e famigliari: ne ha bisogno Daniele e aiuta
anche me a sentire che la nostra vita è come quella degli amici e dei loro
figli, ma con qualcosa in più. Credo davvero che il nostro bambino sia una
creatura arrivata per insegnarci qualcosa. Con lui non ci sono vuoti, tutto è
da colmare, tutto arricchisce. E da maggio in casa è arrivato anche il
fratellino Matteo: le stanze risuonano di pianti, di risate, di carillon. Daniele
non è geloso, percepisce che quel bimbo piccino ha il suo stesso sangue, che è
parte della famiglia amorosa, che siamo. Non solo: ha fatto progressi, si muove
con più scioltezza, ha più forza. Sì la nostra vita è davvero come quella di
tutti, tra poppate, notti in bianco e giocattoli sul tappeto da sistemare.
Valentina Ferri, ‘Confidenze’ (Mondadori)
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